BIMBA E’ LA STELLA Che brilla di saggezza

Era un caldo giorno di novembre del 1899. 

Una donna sedeva su una panchina, appena fuori da casa sua, sventolando un ventaglio per tentare di rinfrescarsi. 

Aveva una pancia così grande che riusciva a malapena a vedere i suoi piedi se rivolgeva lo sguardo verso il basso. 

Aspettava un bambino che sarebbe nato di lì a poco. 

La levatrice si sedette al suo fianco, si fece passare il ventaglio e si mise a sventolarlo per lei. 

“Devi avere pazienza” le disse mettendo una mano sul suo pancione “ci siamo quasi, lo sento, sarà un maschio”. 

Maria Martinha do Bonfim era invece convinta di portare in grembo una femminuccia. 

Rimase molto colpita quando, il 23 novembre, diede alla luce il piccolo Manoel: la levatrice aveva proprio ragione. 

Quella scommessa, fatta ancora prima che nascesse, fece sì che Manoel venisse chiamato, fin dalla nascita, con il soprannome di “Bimba”. 

La sua, era una famiglia umile di Salvador, una delle più belle città del Brasile. Suo padre, era un uomo molto dedicato al lavoro e un grande campione di Batuque: un tipo di lotta molto dura che si praticava un tempo. 

Inutile dire quanta ammirazione provasse Bimba per lui. 

Come il padre, anche lui era un gran lavoratore e, non potendosi permettere altro, lavorava come scaricatore di porto. 

Non smetteva però di sognare un futuro migliore, per sé ma anche per gli altri. Per chi, come lui, discendeva da famiglie con un passato di schiavitù e aveva una carnagione scura, non c’era molta possibilità di avere un futuro roseo. 

Le persone che avevano una vita agiata erano solo i bianchi, loro potevano studiare e fare lavori più soddisfacenti come il banchiere o il maestro o il dottore. 

Come avrebbe potuto quindi riscattarsi un giovane nero come lui, che non sapeva né leggere né scrivere? Beh…lui passò tutta la sua vita provandoci. 

Bimba aveva un grande dono: era dotato di grande saggezza. 

Sapeva aiutare tutti, dava consigli preziosi ed era una persona rispettata e ammirata da tutto il quartiere. Che ci crediate o no, conquistò il titolo di “Mestre” proprio in questo modo: lui era un “maestro di vita” ancora prima di essere uno dei più grandi capoeristi della storia. 

Divenne capoerista quando, all’età di dodici anni, iniziò a seguire il suo maestro Bentinho e frequentando le strade di Salvador, come molti altri giovani della sua età facevano. 

In cuor suo, però, sentiva che quel modo di fare capoeira non andava bene: azzuffandosi per strada la gente non li avrebbe visti di buon occhio. 

“Aprirò una palestra”…pensò “metterò delle regole e farò in modo che l’arte della capoeira non si impari più in strada”. 

Ma il cammino non fu così breve. 

Aveva circa trentatré anni quando fondò la sua scuola di capoeira proprio nel quartiere del Pelourinho, il cuore della città. Era soprannominata scuola di “Luta Regional Bahiana” (lotta regionale bahiana). 

“Prenderò i colpi micidiali del Batuque, compresi i segreti che mio padre mi ha insegnato, e li unirò a quelli della Capoeira Angola”. 

La Capoeira Regional di Mestre Bimba era una lotta efficace, composta da 52 colpi, ma, nonostante questo, lui associava la capoeira alla libertà individuale e di esprimersi: ognuno può avere la propria ginga e il proprio modo di muoversi in roda. 

“E’ essenziale gingare sempre!” diceva ai suoi allievi “e seguire sempre ciò che il Berimbau comanda”. 

Ecco…queste forse erano le uniche due regole su cui era veramente intransigente, altrimenti non è capoeira! 

Aveva già molti allievi e la maggior parte erano studenti universitari che frequentavano il quartiere. 

Mestre Bimba aveva una personalità così forte che in molti seguivano i suoi insegnamenti di vita, era una guida stimata e apprezzata dalla comunità.

Tuttavia, questo non gli bastava. Bimba si sentiva un clandestino perché ciò che faceva non era riconosciuto dal governo. 

Negli anni ’30, In Brasile, come un po’ in tutto il resto del mondo: neri e bianchi non avevano le stesse opportunità e i neri spesso erano emarginati. Su alcuni giornali, però, comparivano articoli di giovani ragazzi di origine africana, più o meno della sua età, che grazie allo sport, erano visti come eroi, come Jessie Owen, un corridore o Joe Louis, un pugile. 

“Ecco cosa posso fare” … “posso sfidare sul ring tutti i lottatori del Brasile. Nessuno sarebbe in grado di battermi e grazie alla mia fama, mi guadagnerò l’appoggio del governo”. 

Era il 6 febbraio del 1936 e, nella Piazza da Sé, proprio accanto alla chiesa, venne inaugurato l’Odeon, un centro di sport e spettacolo dove i ricchi signori assistevano agli incontri di lotta. 

Sul volantino della programmazione dell’ Odeon si leggeva anche il nome di Bimba. 

Quella mattina Bimba si svegliò all’alba e chiese a sua moglie, Agripina, di preparargli la sua solita colazione. 

Amava mangiare abbondantemente per essere in piena forma per affrontare la giornata, specialmente prima di un incontro. 

Il menu mattutino prevedeva: pesce grigliato, quiabada (uno stufato di carne e verdure miste), spezzatino di carne con le uova e il tutto accompagnato da un buon caffè. 

Dopo la super colazione e un buon riscaldamento muscolare ecco che Bimba si reca all’ Odeon per la sfida. 

Il suo sfidante era un tale di nome Henrique Bahia, che quasi nessuno conosceva. Al contrario, Bimba era già conosciuto per la sua capoeira e in molti tifavano per la sua vittoria. 

“Notte di stelle nell’Odeon 

Brilla Bimba 

Bimba è la stella

Bimba è Bamba 

campione bahiano di Capoeira” 

Recitavano i quotidiani che pubblicizzavano l’incontro. 

Il gioco iniziò calmo e lento: gli avversari si studiavano per bene. Bimba si muoveva con agilità e passi felini. 

Poco dopo, salì la tensione e il gioco terminò quando riuscì a proiettare l’avversario, Henrique Bahia, al pavimento con uno dei suoi movimenti disequilibranti. 

Il pubblico era in fervore, tutti si alzarono in piedi per applaudire il lottatore più esemplare della serata. 

“Bimba è Bamba!” gridava la folla impazzita. 

Fu solo uno dei tanti incontri a cui Mestre Bimba partecipò, uscendo sempre vincitore e conquistando sempre maggiore fama. 

Sempre più persone bussavano alla porta della sua scuola per imparare da lui. 

Chi voleva farne parte, però, doveva essere un lavoratore o uno studente, non accettava nullafacenti! 

Era il 2 luglio del 1936. Quell’inverno fu veramente speciale per Mestre Bimba e per tutta la storia della capoeira. 

Pochi giorni prima, il Mestre aveva ricevuto un invito del tutto insolito: il governatore Juracy Magalhães in persona, gli chiedeva di andare al Palazzo del Governo con la sua “turma” (tutti i suoi allievi migliori), per esibirsi nella capoeira, in occasione della “festa della liberazione del Brasile”. 

“Potrebbe essere una trappola” pensò in un primo momento “ci sarà sicuramente molta polizia e potrebbero benissimo catturare tutti quanti, dimostrando così, la superiorità dei bianchi, ancora una volta..”. 

Quasi tutti i suoi amici e i suoi allievi pensavano lo stesso. “Noi andremo!” disse “è un’occasione per conquistare ancora di più il favore del popolo, è la nostra occasione per dimostrare che non tutti quelli di etnia afro-brasiliana sono dei delinquenti e che la capoeira è un’arte, non una lotta di strada”.

Quando Mestre Bimba prendeva una decisione, i suoi discepoli lo seguivano, senza mettere niente in dubbio. 

Ecco quindi che la “turma di Bimba” si preparava a partire per la Piazza Municipale, dove si sarebbe svolta l’esibizione. 

Tutti quanti erano vestiti in modo impeccabile: indossavano calzoni e magliette bianche di cotone e scarpe eleganti. Il Mestre esigeva un certo tipo di abbigliamento nella sua scuola: voleva distinguere i suoi allievi dai capoeristi di strada. 

“Nessuno si allena da me senza la maglietta” diceva sempre ai suoi allievi “e nemmeno con i sacchi delle patate al posto dei calzoni o senza la cintura” … “che figura ci facciamo se vi cascano i calzoni mentre fate capoeira?” 

Ci teneva proprio alla forma! E perchè di bianco? Beh non è che il Mestre voleva per forza che gli allievi indossassero abiti bianchi però, ai quei tempi, in Brasile, chi si vestiva di bianco erano le persone di una certa importanza e loro dovevano proprio darsi importanza, specie in quella occasione. 

Il momento dell’esibizione era vicino, la piazza era piena di gente, tutti desiderosi di vedere lo spettacolo. 

Sei di loro si misero agli strumenti e gli altri sei erano pronti per mostrare i migliori colpi della Capoeira Regional. In questa occasione speciale, Bimba scelse di non utilizzare la classica impostazione della Charanga, la sua batteria di musicisti con un solo berimbau e due pandeiros. Quella l’avrebbero lasciata per la roda, una cosa per soli capoeristi, non per il popolo. 

Meia lua a destra, meia lua a sinistra, armada a destra e armada a sinistra e molti altri colpi speciali furono clamorosamente mostrati dai grandi capoeiristi di Bimba. Ma quello ancora non era niente in confronto al finale che il Mestre aveva in serbo. 

Era qualcosa di mai visto prima, tutti rimasero a bocca asciutta, increduli. “Woooooow”… si udiva dal pubblico “ohhhhhh”, “incredibile!” “sensazionale!” 

La “Cintura desprezada” era la grande sorpresa. 

Mestre Bimba aveva ideato questa sequenza speciale, da svolgere in coppia, che ogni allievo doveva imparare e fare nel giorno della sua formatura, cioè il giorno in cui riceve ufficialmente il riconoscimento di “Aluno Formado” assieme al tanto desiderato foulard blu. 

Le varie coppie di esibirono quindi in questa sequenza di Balões, i famosi movimenti che Bimba chiamava “di proiezione”. 

Bimba fece un aù e subito dopo una bananeira, il suo allievo lo bloccò nell’ apanhada, una forte presa dalla quale lui uscì lanciandosi in aria, arrivando quasi a toccare il cielo. Poi girò su sé stesso ed atterrò di schiena. 

Aveva così tanto equilibrio e padronanza dei suoi movimenti che non fece nemmeno il minimo rumore quando appoggiò i piedi al suolo. 

Ma non era finita lì, Bimba si abbassò ed aprì le gambe “a forbice” per incastrare a sua volta l’avversario in un’altra presa cattivissima: la tesoura de costa. Lui era allenato ad uscire e scappò con una semplice aù. 

Entrambi riprendono poi a gingare. L’altro lo strinse al collo in una morsa letale ma Bimba gli sfuggì per poi sbam! lanciarlo a terra. 

L’allievo, preparato, atterrò leggero come una piuma, nonostante l’impatto del lancio. 

Gli spettatori applaudirono entusiasti e Bimba e la sua turma tornarono a casa contenti. 

Per la prima volta la capoeira era stata inserita in una festa di importanza nazionale e presentata come una parte importante della cultura brasiliana. 

Un anno dopo la sua scuola divenne riconosciuta ufficialmente dal governo come “Centro di Cultura Fisica e Capoeira Regional”. 

Mestre Bimba finalmente era riuscito a convincere le autorità del valore culturale della Capoeira. 

Tutto qui? Ovviamente no, è grazie a Mestre Bimba che successivamente il presidente Getulio Vargas, dopo aver assistito ad un’altra sua presentazione, affermò che la capoeira sarebbe stato l’unico sport nazionale del Brasile e fece in modo che fosse insegnata nelle scuole. 

Mestre Bimba aveva un sogno, un sogno enorme, e poche possibilità di raggiungerlo facilmente. Era un uomo semplice, ma molto saggio: così saggio da riuscire ad andare oltre ai preconcetti. Scelse una strada molto diversa rispetto a tutti i capoeiristi della sua generazione, quella della giustizia. 

Fu innovativo e non si lasciò scoraggiare da nessuno. E’ grazie a lui che esiste la capoeira che conosciamo oggi, quella che insegna una morale, che ci guida nella vita di tutti i giorni e non quella che porta sulla cattiva strada.

Mestre Bimba continua a brillare ancora oggi, in ogni nostra singola ginga.

scritto da: Elisa Gnecchi

SCAPPATE RAGAZZI! Che io sono Maculelê

Gonne di paglia svolazzanti, il viso pitturato di nero, rosso o bianco come i guerrieri Indios dell’Amazzonia, due bastoni, un cerchio e gli atabaque che rimbombano al suono del ritmo di Maculelê. 

Ecco quello che succedeva nel XVIII secolo nelle piazze di Santo Amaro da Purificaçao e si vede ancora oggi negli spettacoli di Capoeira. 

Succede per tramandare una tradizione, per non dimenticare eventi del passato, che ci servono per migliorare il futuro. 

È una danza che rappresenta la resistenza: la parte iniziale serve a spaventare il nemico, poi c’è lo svolgimento della battaglia e una parte finale che rappresenta la vittoria. 

In pochi, però, sanno che tutto ciò viene da alcune leggende che sono state raccontate dagli anziani capoeiristi. 

Tra tutte le storie, ve ne racconterò una che inizia in un villaggio tribale dell’Africa nera. 

Era l’epoca del Regno di Ioruba, nel XV secolo e, in piccolo villaggio della popolazione Bantu, c’era un giovanotto di nome Maculelê. 

Egli era diverso da tutti gli altri maschi della tribù: era esile e non aveva affatto l’aspetto di un guerriero o di un cacciatore. 

Nel suo villaggio, già in tenera età, i maschi imparavano ad andare a caccia nella foresta e a lottare per difendere il villaggio, semmai arrivassero degli invasori. Lui, invece, amava raccogliere le bacche, cucinare e accudire i bambini più piccoli, proprio come facevano le donne. 

Ogni qual volta che Maculelê usciva con il padre e gli altri uomini del villaggio per andare a caccia, veniva deriso e considerato un debole. 

Con il suo arco, non riusciva nemmeno a sfiorare un montone e le frecce gli scivolavano spesso tra le dita ancor prima di tendere la corda. 

Suo padre sembrava deluso da lui, unico figlio maschio della famiglia. 

La verità era che a lui non piaceva la guerra, gli sembrava una cosa senza senso, pensava che un mondo pacifico sarebbe stato un mondo migliore.

Oramai tutto il villaggio aveva perso le speranze con lui e nessuno cercava più di convincerlo a diventare un cacciatore. 

Col tempo, smise di partecipare alle battute di caccia, perché era considerato da tutti un impedimento. Era più utile se restava ad aiutare il villaggio.

Passava quindi sempre più tempo tra le capanne della tribù aiutando tutti quanti: donne, bambini ed anziani. 

Un giorno, tutti gli uomini del villaggio si riunirono in una capanna e anche i più giovani presero parte all’incontro. 

Maculelê aveva ormai 17 anni ma poco era cambiato rispetto a quando era in tenera età. 

I grandi, stavano parlando di un attacco alla tribù nemica, ma lui non vi prestava attenzione, intento com’era ad incastrare denti di serpente in un filo, per fare una nuova collana. 

Ogni tanto qualcuno posava gli occhi su di lui e scuoteva la testa a destra e sinistra come segno di disapprovazione. 

Suo padre avrebbe voluto sprofondare nel terreno, ma fingeva di non accorgersene nemmeno. 

“Le nostre coraggiose sentinelle hanno visto che il nemico è vicino….” diceva nel frattempo il Grande Capo del villaggio “…si stanno nascondendo non lontano da qui, vicino al fiume”…. “vogliono farci un’ imboscata” 

“Dobbiamo sorprenderli!” disse un uomo grosso con i capelli bianchi che sedeva in prima fila 

“Esatto!” continuò il Grande Capo “le donne si prenderanno cura dei bambini e degli anziani e tutti noi andremo al fiume, non ci fregheranno!”. 

Ecco che tutti si alzarono e fecero l’urlo dei guerrieri del villaggio “oh oh oh tagatum tagatum…” erano pronti per partire all’attacco! 

Si crearono due file e tutti gli uomini si prepararono ad uscire dalla capanna, senza smettere di urlare. 

Improvvisamente però, il Grande Capo, con il solo movimento della sua lancia, interruppe tutto. 

Calò il silenzio e tutti i presenti si guardarono intorno per capire cosa fosse successo di tanto importante da fermare quell’energia. 

“ Maculelê!” disse il Capo con voce grossa e ferma “tu rimarrai al villaggio, non è sicuro portarti con noi, saresti solo un piantagrane! Tuo padre non è mai riuscito a crescerti come un vero uomo, se verrai con noi, non farai altro che disonorarlo ancora di più”. 

Tutti scoppiarono a ridere a crepapelle, poi si voltarono e tornarono sui loro passi. 

Maculelê rimase fermo immobile, una lacrima iniziò a scorrergli sulla tenera guancia; lui cercava di trattenere il pianto, per non apparire ancora più debole, senza tuttavia riuscirvi. 

Suo padre avrebbe tanto voluto rimanere con lui, abbracciarlo forte e dirgli che lo amava per quello che era, ma non poteva. 

Egli era profondamente addolorato per la fragilità del figlio, di cui si sentiva forse responsabile. 

Fu l’ultimo ad uscire e non tolse mai lo sguardo da lui, per mostrargli il suo dispiacere nell’unico modo possibile, ma poi dovette partire con gli altri. 

Maculelê corse alla sua capanna con gli occhi sempre più lucidi e pieni di rabbia. 

Non volle parlare più con nessuno e si chiuse in sé stesso. 

Passò la notte a rimuginare su quanto accaduto il giorno prima e pensò al bene che faceva alle persone del villaggio, nonostante pochi se ne accorgessero. 

Gli anziani lo adoravano perché lui era così gentile e generoso che faceva per loro le faccende più faticose come portare i secchi d’acqua dal pozzo alle capanne, oppure i lavori di riparazione per chi ne avesse bisogno. 

Le donne apprezzavano molto il suo aiuto nelle pulizie o ad accudire i bambini e farli giocare. 

Tutti quelli che restavan al villaggio nutrivano un sentimento di grande stima per Maculelê e anche lui, di conseguenza, era affezionato a tutti loro. 

Si fece l’alba e Maculelê si svegliò di soprassalto perché aveva sentito uno strano rumore. 

Decise dunque di uscire cautamente dalla capanna per controllare che andasse tutto bene. 

Rimase incredulo quando vide un gruppo di guerrieri della tribù nemica avvicinarsi al villaggio. 

Si muovevano lentamente per non fare troppo rumore e i loro movimenti ricordavano quelli degli animali. Stavano raggiungendo le capanne. 

“Ci hanno ingannati” pensò “ci hanno fatto credere che ci stavano attaccando per distrarci, ora non c’è più nessuno a difendere il villaggio e siamo molto più vulnerabili, inoltre non abbiamo armi”. 

Le sue gambe iniziarono a tremare, non sapeva cosa fare, non avrebbe mai fatto in tempo a cercare rinforzi, oramai poteva contare solo su se stesso. 

Ma il tempo era troppo poco anche per pensare ad una strategia. 

I guerrieri della tribù nemica avevano già raggiunto la zona abitata. Stavano per entrare a saccheggiare le capanne e avrebbero distrutto tutto quanto. 

Agì d’istinto. 

Dentro di sé ribolliva ancora di rabbia per il discorso del Capo Villaggio. ma ancora di più, amava così tanto gli abitanti della sua tribù che trovò in sé stesso tutta la forza che aveva in corpo. 

Doveva agire, e subito! Non poteva sfidare i nemici armati con solo la forza del suo corpo, allora si guardò attorno e rapidamente raccolse da terra due bastoni. 

Uscì allora dalla capanna facendo un salto mortale, terrorizzando i nemici, i quali rimasero impietriti e increduli, e gridò: “Scappate ragazzi! Che io sono Maculelê!”. 

Il suo urlo da guerriero era più spaventoso che mai. 

Anche lui in fondo aveva un animo combattivo, aveva solo bisogno di trovare la giusta motivazione. 

I nemici tentarono di scappare a gambe levate ma non ci riuscirono. 

Nel frattempo, dopo aver capito di essere caduti in un tranello, Il Grande Capo e tutti gli altri guerrieri del villaggio erano tornati indietro. 

In pochissimo tempo tutti i cattivi vennero catturati e rispediti indietro dopo averli costretti ad firmare un trattato di pace. 

Tutti gli abitanti del villaggio uscirono esultando con dei bastoni in mano in segno di riconoscimento al loro eroe, gridando “ Maculelê! Maculelê! Maculelê!…”. 

Il Capo Villaggio non poté fare a meno di riconoscergli il merito di aver salvato tutti quanti con il suo grande coraggio. 

“ Maculelê, avresti potuto morire, con soli due bastoni e la tua inesperienza non saresti riuscito a difendere la tribù, tuttavia ci hai provato lo stesso e non hai esitato. Sarai per sempre ricordato come l’eroe del villaggio! Mi sono sbagliato sul tuo conto…” 

“…ecco… prendi questo” continuò mentre porgeva a Maculelê il suo cappello di piume “lo cedo a te, in segno della mia gratitudine”. 

Suo padre corse ad abbracciarlo. Non poteva essere più orgoglioso e fiero di suo figlio, che alla fine si era dimostrato un grande uomo, senza per forza dover essere un cacciatore o un guerriero come gli altri. 

Quella sera ci fu una grande festa: tutti ballarono attorno ad un grande fuoco; donne, uomini e bambini si muovevano a ritmo di tamburi con due bastoni in mano in onore di Maculelê, l’eroe indiscusso della tribù. 

La sua storia divenne leggenda e le sue gesta sono raccontate in una danza, che dal quel giorno in poi, fece il giro del mondo.

  • Personaggio leggendario

Scritto da: Gnecchi Elisa

Certo Dia Na Cabana Um Guerreiro (maculelê)
Spettacolo di Maculelê all’8° incontro mondiale del gruppo Capoeira Sul da Bahia in Brasile

JOÃO PEQUENO e la capoeira per le strade di Salvador

Abitava in una piccola città nello stato di Bahia, in Brasile, un ragazzino di nome João Pereira. Queimadas, era una zona con molto verde, torrenti e piccole cascate e poche case sparse per il territorio. A João non era mai piaciuto troppo vivere li.

Sua madre, Maria Clemença de Jesus, lavorava la ceramica e la sua famiglia discendeva dagli Indios, che erano i più antici abitanti del Sud America, e quindi anche del Brasile. Suo padre, Maximiliano Pereira dos Santos, era invece un contadino che portava le mucche al pascolo in un’azienda agricola della zona.

Tutte le mattine João lo osservava lavorare, doveva apprendere tutti i segreti del mestiere perchè avrebbe dovuto proseguire il suo lavoro, un giorno.

In cuor suo, però, non voleva che quello fosse il suo futuro; lui sognava di vivere in una grande città.

Si ricordava di un giorno in cui uno zio, che abitava nella città di Salvador, la fervida capitale dello stato di Bahia, li andò a trovare. I racconti dello zio erano di una città tutta colorata, con delle strade ripide e le piazze piene di ragazzini. Lì, si ritrovavano tutti gli intellettuali e gli studiosi più importanti dell’ epoca e, proprio per le sue strade, si suonavano e ballavano tantissimi ritmi diversi come il samba e la bossa nova.

Da quel giorno in poi, non ci fu una notte in cui non avesse sognato di vivere proprio li.

I giorni passavano e João continuava a seguire il padre nella fattoria.

Aveva timore di ferirlo dicendogli la verità e, nel tempo, mise da parte i suoi sogni.

Il giorno del suo quindicesimo compleanno, però, mentre soffiava le candeline della sua torta, tutto gli tornò alla mente. Stanco di nascondere la verità ai suoi genitori, decise quindi di chiedere il loro consenso per partire e andare a vivere nella grande città.

La madre si mostrò felice per la sua decisione e appoggiò di buon grado la sua scelta, mentre il padre rimase un po’ frastornato: proprio non si sarebbe mai aspettato una simile richiesta da parte del figlio. Alla fine però, anche lui si lasciò convincere, commosso dalla grande ambizione del giovane João e dal desiderio di renderlo felice.

Al momento della partenza, mamma e papà Dos Santos, fecerò a João tantissime raccomandazioni. La madre lo riempì di baci, tanto da metterlo in imbarazzo e gli diede una valigia piena di provviste per il viaggio: erano così tante che avrebbe potuto sfamarci l’intera città, ma, d’altronte non si sa mai cosa possa succedere quando si è da soli! Il padre invece, decise di fargli un solo dono, ma uno molto importante. Gli regalò il suo cappello. Non era un cappello di valore, ma, ogni qual volta che João si fosse sentito solo, avrebbe potuto ricordare il padre grazie ad esso.

João sapeva che vivere da solo, senza l’aiuto dei suoi genitori, sarebbe stato molto difficile e che avrebbe dovuto trovare al più presto un lavoro. Si fermò quindi prima ad Alagoinhas e poi a Mata de São João, due città nelle quali era molto più facile trovarne uno.

Trovò lavoro in una piantagione di canna da zucchero, nella quale abbe l’occasione di fare tante nuove amicizie. Uno dei suoi amici più cari, era un tale di nome Juvêncio che lavorava come maniscalco: colui che mette i ferri ai buoi ed ai cavalli. Oltre a questa grande abilità, Juvêncio sapeva anche fare Capoeira.

I due, passavano molto tempo insieme e, ben presto, anche João si appassionò ad essa.

Passarono ben dieci anni prima che si mise di nuovo in partenza, questa volta, finalmente, per la sua città prediletta: la coloratissima Salvador.

La città era ancora più bella di come se l’era immaginata, ancora più incantevole dei suoi sogni. Le sue strade erano molto ripide e stracolme di gente a passeggio.

Nelle piazze giravano belle signore, vestite di bianco, che portavano sulla testa grossi cesti pieni di cibo e frutta, da vendere ai passanti. Le case erano tutte molto vicine le une alle altre e dipinte con colori vivaci come il giallo, il verde e l’azzurro. Nelle piazze molti giovani si riunivano per fare Capoeira o per suonare i tamburi, o per ballare il samba. La città era viva, colorata e chiassosa: non ci si annoiava mai nella incantevole Salvador da Bahia. Nelle strade più grandi capitava anche di vedere qualche macchina, di qualche ricco signore, mentre la maggior parte della gente si spostava con il tram. Il suo primo impiego, nella grande città, fu proprio come autista di uno di questi.

João fu ben presto molto amato e conosiuto da tutti quanti. Era un personaggio simpatico soprattutto per il suo aspetto: piccoletto di statura, aveva un naso a patata e portava sempre il suo prezioso cappello a coppola, anche dentro casa. Nell’arco di soli due mesi aveva gia fatto una marea di amicizie.

Un bel giorno, prima di andare a lavoro, João scese di casa per comprare il giornale ed incontrò uno dei suoi nuovi amici, di nome Cândido. Costui lavorava al porto della città, nei pressi del mercato, dove si trovava il giornalaio. “João! Amico mio…” gli disse Cândido “anche oggi da queste parti…”

“sono venuto a prendere il giornale, così ho qualcosa da fare nel mio tempo libero. Sai…ho fatto molte passegiate e ora conosco tutte le vie della città, anche quelle più piccole e nascoste, però mi annoio, non so più cosa fare quando non lavoro…” rispose lui

“ Mio caro João, annoiarsi a Salvador? Proprio qui, in questa piazza tutte le sere è una festa! Si gioca Capoeira!”

“Davvero?” João era molto sorpreso, non pensava che anche in altre città si facesse Capoeira.

“ Io facevo Capoeira, con il mio amico Juvêncio, quando abitavo a Mata de São João, ma lui mi disse che era una sua invenzione, dici che mi ha detto una bugia?”

“ah ah ah ah…” Cândido scoppiò a ridere “Vedi João ecco perchè sei così simpatico! Sei così ingenuo che ti bevi tutto, devi ancora vedere e conoscere un sacco di cose ma io ti posso aiutare!”…. “ vieni questa sera alle otto, proprio qui al Mercado Modelo”.

Il Mercado Modelo era un grandissimo edificio proprio vicino al porto di Salvador. Dava su una grande piazza che di giorno era piena di bancarelle in ogni angolo e la sera era completamente spoglia, ma…come raccontava lo stesso Cândido, si riempiva di vita e di Capoeira. João non riusciva a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie, era tutto molto diverso da quello che si immaginava, tutto molto più bello.

Gruppi di giovani si riunivano in una grande roda, c’era così tanta gente che non riusciva a vedere bene cosa stesse succedendo in mezzo. Fortunatamente era così piccolo di costituzione che riuscì ad intrufolarsi fino ad arrivare al cerchio più interno e a vedere il gioco.

Era tutto molto diverso da quello che faceva con Juvêncio, era una lotta di furbizia, e quanta furbizia! Sembrava non accadesse niente tra i due giocatori quando ogni tanto uno faceva cadere l’altro, oppure lo colpiva con una testata che sembrava arrivare dal nulla.

João, però, rimase ancora ancora più colpito dalla batteria di strumenti e dall’energia del canto di chi suonava il gunga. Il gunga è il birimbau più importante, è quello che comanda la roda.

L’energia risuonava nell’aria attraverso la sua voce ed entrava dritta nel cuore di tutti. Il suo cuore anche iniziò a battere, quasi scoppiava dall’emozione. Era così forte la sensazione che non gli andò, quella sera, di soffermarsi oltre e se ne tornò a casa.

Non era nemmeno riuscito a salutare Cândido, che aveva riconosciuto tra la mischia da lontano. Dispiaciuto per questo, il giorno seguente andò a cercarlo.

“João, che fine hai fatto ieri?” gli chiese tranquillo appena lo vide arrivare…

“Sono passato al Mercado Modelo ma erano tutti così bravi che non ho voluto rimanere, avevo così tanta voglia di partecipare ma non sarei stato in grado di giocare”

“ummm….” pensò Cândido “credo che tu abbia bisogno di un maestro…”

“un maestro? Non puoi essere tu ad insegnarmi?”

“no João, io sto ancora imparando, ma ti posso far conoscere il mio, che ne dici?”

“sarebbe fantastico!”.

João era estasiato all’ idea di imparare da un maestro, per quel che aveva visto la sera prima, il suo amico era così bravo che nemmeno riusciva ad immaginare il suo insegnante.

Mestre Barbosa era scuro di carnagione, ne troppo alto, ne troppo magro. Era molto gentile e pacato ed accoglieva in maniera educata ogni persona che andava da lui. Anche lui portava sempre un cappello in testa, ma, il suo, era in stile panama, un tipo di cappello di paglia molto in voga.

Prese subito in simpatia il “piccolo” João che era molto determinato e non mancava mai a nessun allenamento.

I giorni passarono e João si allenò giorno e notte, diventanto ben presto un personaggio molto conosciuto nelle varie rode organizzate qua e la per la città.

“Cândido, amico mio!…” disse un giorno al suo compagno dopo l’allenamento “…ho scoperto una cosa fantastica, la devi sapere…”

“wow! Che cosa hai scoperto João?” gli chiese lui

“Ho scoperto che c’è un posto, proprio nel centro di Salvador, al Pelourinho, dove c’è quella grande piazza, e quella grande salita, hai presente?”

“si” rispose divertito “tutti conoscono il Pelourinho, è il cuore di Salvador”

“bene…” continuò entusiasta “…lì c’è un centro culturale, un centro di Capoeria, hai presente? Un centro dove si fa solo Capoeira e tutti i più grandi maestri si ritrovano lì”

Cândido rimaneva sempre più sorpreso per la sua ingenuità, sembrava che João venisse da un altro pianeta.

“Si lo conosco si chiama CECA, è il Centro Culturale di Capoeira Angola” disse

“E non ci possiamo andare?”

“Si certo, puoi andare, io sono sempre stanco per il lavoro ma tu…, si, tu dovresti proprio andare João! Io gioco Capoeira per divertimento ma tu, tu potresti diventare un maestro un giorno”

“Ma… Cândido…” il suo amico inziava a scocciarsi di rispondere alle sue domande ma, allo stesso tempo, era allietato dal suo entusiasmo intramontabile.

“Cosa vuol dire Capoeira Angola?”

“A questa domanda non ti risponderò, dovrai chiederlo al presidente del centro culturale, è uno dei più grandi Mestre che ci sono, qui a Salvador e nel mondo, il suo nome è Mestre Pastinha. Quando arrivi li, chiedi di lui”

João quella notte non potè proprio dormire. Aveva conosciuto la Capoeira con Juvêncio che la praticava da solo, o al massimo con pochi amici, così per divertimento; poi aveva conosciuto Cândido ed era rimasto impressionato dalla sua bravura; poi aveva conosciuto Mestre Barbosa che aveva un’abilità mai vista prima; ma ora, ora stava per conoscere il maestro per eccellenza, colui che insegna ai maestri.

Si svegliò all’alba, fece una buona colazione e andò a lavoro. Ora lavorava come capomastro: colui che dirige i lavori dei muratori. Finito il turno di lavoro si fiondò alla porta del luogo che gli avrebbe cambiato per sempre la vita: la CECA.

Sembrava di entrare in una casa qualsiasi della città, all’ingresso c’era una semplice porta di legno che rimaneva sempre aperta, sulla parete esterna, sopra alla porta c’era una scritta alquanto singolare: “Capoeira è tutto ciò che la bocca è in grado di mangiare”.

Al momento João non ne comprendeva a fondo il significato, anzi, continuò per moltissimo tempo a cercare di capirne il senso.

Dal suo primo incontro con Mestre Pastinha capì che non poteva esserci per lui un altro maestro, era lui e solo lui che voleva, il migliore in assoluto. Fortunatamente per lui, il Grande Mestre acconsentì ad insegnarli tutto ciò che sapeva.

João avrebbe dovuto però seguire attentemente i suoi consigli e i suoi insegnamenti perchè la Capoeira di Mestre Pastinha aveva delle regole ben precise ed era un po’ diversa dalla Capoeira che si faceva in strada, o al Mercado Modelo.

Seguendolo, João comprese che non si poteva spiegare in due parole cosa fosse la Capoeira Angola, perchè solo dopo un lungo percorso con Mestre Pastinha si poteva capire.

Passarono i mesi e João era sempre più bravo a giocare e suonare. Il suo telento iniziava ad emergere tra tutti i suoi compagni e il Mestre, orgoglioso di lui, gli diede un soprannome. Tutti i migliori capoeirsiti ne avevano uno e João fu molto contento di riceverlo. “D’ora in poi sarai João Pequeno!” gli disse il Mestre.

Tra gli allievi di Mestre Pastinha però, ve ne era un altro di nome João.

João Grande era tutto l’opposto di João Pequeno. Come vi potete immaginare era alto e massiccio, aveva le gambe molto lunghe e quando si spostava faceva quasi paura. Era uno degli allievi prediletti del Mestre e giocare con lui non era affatto facile.

Poco dopo aver ricevuto il suo sopprannome, João Pequeno si trovò a dover giocare con lui. João Grande non lo voleva ammettere ma, infondo infondo, era un po’ geloso del João bassettino che iniziava ad entrare tra le grazie di Mestre Pastinha.

Esso si mostrò impavido, convinto che la sua stazza gli avrebbe dato un grande vantaggio su João Pequeno.

Una canzone cantata dal Mestre aprì la roda, i due erano accovacciati uno difronte all’altro, pronti a partire per il gioco. João Grande sembrava avere la meglio all’inizio, metteva sempre in difficoltà João Pequeno che, però, non si scoraggiò e trovò il momento perfetto per fare il suo colpo migliore: la cabeçada, una testata dritta dritta sulla pancia dell’avversario, tanto precisa e forte da stendere l’avversario. Ma entrambi erano così bravi che non cadevano mai. Non erano solo forti, con i loro calci e i loro colpi, erano anche astuti e sapevano fare bene loro mosse, come i giocatori di scacchi.

La sfida tra i due continuò senza che nessuno riuscisse ad avere la meglio sull’altro.

Il Mestre fermò la roda, richiamando i giocatori con il suo berimbau e i due tornarono accovacciati li vicino. Rimasero a guardarsi negli occhi per un po’, poi si alzarono e colti da un sentimento di stima reciproca di strinsero la mano e si abbracciarono. Nonostante di nome uno era piccolo e l’altro grande, di fatto erano entrambi grandi capoeristi.

Mestre Pastinha era molto orgoglioso di loro, continuò ad insegnarli fino alla fine, e li trattò come se fossero suoi figli. Così parlava di loro: “Loro saranno i grandi capoeirsiti del futuro e, per questo, io ho lavorato e lottato con loro, per loro. Anche loro saranno Mestre, non professori improvvisati, come alcuni che girano qui e che sono solo capaci di distruggere la nostra così bella tradizione. A questi ragazzi ho insegnato tutto quello che so, persino il salto del gatto”.

João Pequeno e João Grande giocando Capoeira

NESSUNO RIUSCIVA A PRENDERE BESOURO

Era un caldo giorno di novembre del 1918 e, per le colorate strade di Santo Amaro, in Brasile, si aggirava un giovane nero e forte: Manoel Henrique Pereira, meglio conosciuto come Besouro. 

Besouro in portoghese significa “coleottero”. 

Ma allora, perchè ad un virtuoso giovanotto venne dato un soprannome così apparentemente ridicolo? 

Dovete sapere, che Besouro ebbe un grande maestro di Capoeira, uno dei più saggi e valorosi dell’epoca, il suo nome era Tio Alípio (Zio Alípio). 

Nonostante la sua grande saggezza, però, Tio Alípio, aveva anche una debolezza: adorava in maniera smisurata tutti i suoi allievi, perché li aveva cresciuti nella Capoeira come se fossero suoi figli, sin da quando erano bambini, e il giovane Besouro, era il suo prediletto. 

Anche se Besouro arrivava sempre in ritardo agli allenamenti, il Mestre non lo sgridava mai, infondo, quando lo mandava a chiamare, lui li raggiungeva in un lampo: Besouro, era così veloce che poteva andare da Maracangalha a Santo Amaro (due città molto lontane) in un istante. 

Questa era la sua maggiore qualità, che gli permetteva di scappare sempre da altri cattivi malintenzionati che tentavano di catturarlo, ma anche dalla Polizia, la quale, a quell’epoca, era spesso ingiusta e puniva anche i buoni.

Lui volava via, scompariva nel nulla, si dissolveva in un istante, proprio come un coleottero! 

Tio Alípio teneva molto alla disciplina e all’autocontrollo dei suoi allievi, eppure, a Besouro perdonava molte cose, anche quando si faceva trovare nel bel mezzo di una rissa, come spesso accadeva. 

“Besouro!” gli disse un giorno Tio Alípio tutto affannato dopo una corsa, 

“Cosa hai combinato di nuovo?” 

“Non è stata colpa mia Maest…” 

“…Ummm…non mi raccontare bugie, figlio mio, la locandiera mi ha detto che sei stato proprio tu ieri sera quello che ha scatenato la rissa.” 

“ Si, ma…ti posso spiegare…” 

“lo so Besouro che tu hai sempre intenzioni nobili e so che difendi i più poveri, ma non puoi agire così, la violenza non risolve sempre tutte le cose.” 

Ma Besouro era fatto così, non poteva sopportare di vedere un’ingiustizia senza fare niente. 

Qualche anno prima fu addirittura cacciato dall’esercito brasiliano per aver disobbedito ad un suo superiore, pur di non far male ad un povero mendicante. Ebbene sì! In passato Besouro era stato un soldato della famosa armata della cavalleria. 

A quei tempi infatti, sia i soldati che i poliziotti andavano a cavallo per essere più veloci dei furfanti, anche se lui, ovviamente, era ancora più veloce dei cavalli. 

Era domenica ed era un giorno di preghiera. 

Besouro era protetto dagli spiriti degli antenati, portava al collo un amuleto magico che lo proteggeva, il suo Patuà. 

Si dice che era proprio quello a renderlo invincibile! 

Non solo era veloce come un fulmine, ma il suo corpo era anche protetto: niente poteva trafiggerlo, nemmeno le lame, nemmeno i colpi di pistola. 

La domenica, era anche il giorno della roda di Capoeira. 

Molti giovani della sua età si trovavano in un angolo di giardino un po’ isolato, dietro alla Praça Floriano Peixoto, la piazza principale della città, dove delle bellissime donne formose, vestite di bianco, vendevano Vatapà e Acarajé, due gustosissimi piatti tradizionali. 

I tempi però non erano dei migliori per giocare Capoeira. 

Come da sempre nella storia, purtroppo, per colpa di pochi ci rimettono in molti: alcuni usavano la Capoeira per commettere piccoli furti, altri erano veri e propri banditi. Il governo perseguitava chiunque facesse Capoeira, buono o cattivo che fosse e la polizia era molto severa. 

Niente poteva però fermare i giovani come Besouro dal mantenere viva la loro passione. 

Così, ogni qual volta avessero un po’ di tempo per stare insieme, si dedicavano alla Capoeira. 

Nel pomeriggio, gli allievi di Tio Alípio e altri amici di Besouro si ritrovarono tutti insieme: stesso posto e stessa ora di sempre. 

Besouro arrivò poco dopo tutti gli altri, anche se, ovviamente, era stato l’ultimo a partire da casa. 

Siri de Mangue e Canário Pardo presero per primi gli strumenti (a loro piaceva iniziare sempre suonando) Besouro, invece, amava essere il primo ad aprire la roda. 

Avrebbero dovuto stare molto attenti a non farsi scoprire, ma loro avevano un piano perfetto (o quasi). 

La roda si svolgeva sempre sotto ad un grande albero, sul quale un ragazzino si arrampicava per fare da vedetta, in caso arrivasse la Cavalaria (la polizia a cavallo). 

Non appena egli si fosse accorto dell’arrivo dei poliziotti, avrebbe avvisato chi teneva il Berimbau, perché suonasse il ritmo di allerta, prima che si avvicinassero troppo. 

Tio Alípio era a conoscenza di tutto, ma non era troppo contento di quel che succedeva, specialmente perchè veniva sempre coinvolto un ragazzino, soprannominato Cobrinha Verde (cobra verde). 

Qualche mese prima, Cobrinha Verde, era andato coraggiosamente da Besouro chiedendogli di poter partecipare alla roda e lui gli aveva risposto che era troppo presto e che doveva ancora allenarsi molto ma, nel frattempo, avrebbe potuto aiutarli, facendo da sentinella. 

Cobrinha Verde, che in quel momento aveva suppergiù otto o nove anni, non ci pensò due volte e accettò di buon grado, felice di essere tra le grazie del leggendario Besouro. 

Poco dopo che la roda ebbe inizio, Cobrinha Verde vide delle sagome del drappello a cavallo avvicinarsi sempre di più, non apparivano nemmeno troppo piccole, quindi erano già molto vicine. 

Bastò un attimo per dare il segnale e Maria, la quale stava suonando il berimbau e cambiò immediatamente ritmo. Il ritmo di allerta, si chiama Cavalaria, e ricorda il rumore dei cavalli al galoppo. 

In pochissimo tempo, tutti gli amici nascosero gli strumenti per fingere di giocando a domino, con delle pietre, un piano perfetto! 

L’irruzione dei poliziotti, tuttavia, creò nell’aria un’atmosfera diversa dal solito, più pesante, come se stesse per succedere qualcosa di brutto. 

“Chi di voi è Besouro?” chiese un poliziotto “Siamo venuti a prenderti per portarti al commissariato!” 

“Sono io Besouro!” rispose senza mostrare alcun timore 

“Non sto facendo nulla di male e, se vuoi pensate che io abbia fatto qualcosa di proibito, fuori le prove! ” 

“Ti sbagli mio caro, non mi servono prove, per colpa tua ho già avuto molte grane ed ora rischio di essere retrocesso a poliziotto semplice! E mi toglieranno Furia, il mio prezioso cavallo!” “Questa volta ti porterò con me, su vieni e non fare troppe storie!” 

Besouro scoppiò in una fragorosa risata. 

Tutti quelli lì intorno avevano paura, ma lui no. 

“Non mi consegnerò alla polizia, che cosa pensate di farmi?” 

In un attimo i poliziotti lo accerchiarono, puntandogli contro le pistole. 

“Allora Besouro!? Vieni con noi o no?” 

Lui rise ancora più forte. 

A spegnere il fragore della sua risata, ci furono nove spari, nello stesso momento, tutti verso di lui, che fecero un enorme trambusto. 

I suoi compagni, anche loro capoeristi, non si spostarono di un millimetro ed erano già pronti a vendicarlo, quando, improvvisamente, videro il suo volto spuntare dalla grande nube di fumo creata dagli spari. 

Ecco che Besouro, con il corpo protetto dal patuà, il suo potente talismano, era uscito dalla sparatoria completamente indenne! 

Tutti rimasero sbalorditi mentre Besouro se ne andava via canticchiando, ridendo sotto i baffi, schernendo ancora di più il poliziotto e i suoi amici si misero a seguirlo sulla via di casa, orgogliosi del loro compagno, che consideravano un eroe. 

Per tutto questo tempo, Cobrinha Verde era rimasto sull’albero e scese proprio quando i poliziotti erano ancora lì sotto. 

“ I poliziotti sono pappe molli” pensò dopo quello che aveva visto, “ Non possono fare niente contro un capoerista e io sono uno di loro, me lo ha detto Besouro!”. 

Pochi secondi dopo, uno dei ragazzi, che voltandosi aveva visto la scena, gridò: “Besouro! Quei vigliacchi hanno preso il ragazzino!” 

Questa volta, Besouro ebbe realmente paura. Nonostante fosse una testa calda, era molto sensibile alla violenza nei confronti dei più deboli e si sentiva responsabile della faccenda. 

Tio Alípio lo aveva avvisato molte volte, ma lui non lo aveva mai voluto ascoltare. Cosa avrebbe pensato di lui Tio Alípio se fosse successo qualcosa di brutto a Cobrinha Verde? Cosa avrebbe pensato tutta la città? Avrebbe mai più potuto considerarsi un vero capoerista? 

Corse subito indietro, ma, nemmeno con la sua velocità supersonica, tornò in tempo per vedere dove erano andati i poliziotti.

In questa situazione, solo una persona lo avrebbe potuto aiutare. Sarebbe stata dura, ma non aveva altra scelta che raccontare tutto al suo maestro. 

Tio Alípio era alla locanda, informato già dell’accaduto, aveva sentito delle voci …, e poi, lui sapeva sempre tutto! (Infatti non era mai saggio tentare di nascondergli qualcosa …) 

La sua faccia cupa lasciava trapelare che era molto arrabbiato. 

“Maestro!” gli disse Besouro “E’ successo qualcosa di brutto giù in piazza.” “So già tutto! Come hai potuto lasciare che lo prendessero?” “Perchè non ti sei guardato indietro?” 

“Ero felice di essermi preso gioco di loro e mi sono dimenticato del ragazzino, ho fatto un grave errore maestro, ma non lo farò mai più!” 

“Ora devi andare a salvarlo Besouro!” 

“Si ma, come lo trovo?” 

“Chiedi agli antenati, loro parlano con te, tu sei speciale per loro, ti sapranno indicare la strada.” 

E così fece: iniziò a pregare, ed improvvisamente, vide una folata di vento alzare la polvere e le foglie di fronte a lui, che spostandosi, gli indicava la strada. 

Seguì la scia e, fortunatamente, riuscì a raggiungere Corbina Verde e i poliziotti prima che arrivassero al commissariato. 

“Fermi!” gli intimò. 

I poliziotti si girarono increduli, a bocca aperta. 

Cobrinha Verde era legato con una corda alla schiena di uno dei poliziotti a cavallo. 

“Fermo tu Besouro!” disse il poliziotto “Se farai un solo passo falso, per il ragazzino si metterà male.” 

Cobrinha Verde iniziava ormai a comprendere la gravità della situazione e ad avere paura. 

Besouro, rivolgendosi al poliziotto disse: “Tu ancora non hai capito chi sono, sai perchè mi chiamano Besouro?” 

“Perché sei da schiacciare come uno scarafaggio?” rispose sogghignando il poliziotto, seguito da tutti gli altri. 

Besouro non si prese nemmeno la briga di rispondere e con la rapidità di una saetta, liberò il ragazzo e portò via tutte le armi ai poliziotti. 

Fu così veloce che nessuno riuscì a vederlo prima che avesse terminato. Non totalmente soddisfatto della sua vendetta, stese a terra il poliziotto con un martelo cruzado, il suo famoso calcio volante, e si prese pure Furia, con il quale tornò in città assieme a Cobrinha Verde. 

Tutti in città sapevano a chi apparteneva quel cavallo, così, il commissario della polizia cacciò tutti i nove poliziotti. 

Besouro accompagnò personalmente a casa il piccolo Cobrinha Verde, in modo da poter chiedere scusa a tutta la sua famiglia per averlo messo in pericolo. 

Prima che i due varcassero la soglia della porta, Cobrinha Verde gli chiese “Besouro, anche io potrò diventare come te un giorno?” 

“Potrai diventare anche più bravo di me” gli rispose lui “basta che seguirai sempre gli insegnamenti del tuo maestro e non farai i miei stessi errori” “Besouro…” continuò il piccolo “Ma sei tu il mio maestro?” Fino ad allora Besouro non aveva mai pensato di poter essere lui il maestro di qualcun altro, ma, commosso dalla richiesta del ragazzino, accettò di buon grado.

“E se ti prenderanno?, come farò senza il mio maestro?” chiese infine il ragazzino.

“Nessuno riesce a prendere Besouro!” rispose il leggendario capoerista.

“Prima o poi lo prenderemo” disse il capo della polizia.

  • Valentão
    Scritto da: Elisa Gnecchi
Aê Besouro

ZUMBI’ GUERRIERO

Molti anni fa, in un villaggio nel bel mezzo della giungla del Brasile, nacque un giorno un grande guerriero. 

Erano tantissimi i villaggi come quello, dove vivevano donne e uomini valorosi, che, per sfuggire alla schiavitù, si nascondevano nelle foreste. 

Il suo, però, era in assoluto il più grande e il più importante di tutti: il Quilombo dos Palmares. 

Un brutto giorno, poco dopo la sua nascita, il villaggio fu preso d’assalto dai proprietari delle piantagioni, che purtroppo ebbero la meglio. I soldati catturarono gli abitanti del Quilombo e li fecero prigionieri. Presero con sé anche il piccolo appena nato e lo portarono al loro padrone. 

Costui era un uomo basso e tozzo e aveva una risata strana. Guardò quella piccola creatura innocente di fronte a sé e pensò che sarebbe stato magnanimo con lui. 

“Padre Melo!” esclamò, “vieni qui subito!”. 

Ecco che si sentì una porta scricchiolare e aprirsi dietro di lui. 

A passi flebili comparve un uomo anziano, con la tonaca da frate, magro e con la schiena gobba, che si avvicinò al padrone.

“Uhm, uhm” si schiarì la voce roca, “ Eccomi signore! Come posso aiutarla?” 

“ Vedi questo bambino, Padre Melo?” 

“ Si signore”, rispose il frate 

“ Lo affido alle tue cure, viene dal Quilombo Dos Palmares, ma ho deciso di tenerlo qui con noi!” “ Dovrai insegnargli tutto quello che sai: il portoghese, il latino, la teologia e la matematica…” 

“ D’accordo signore” rispose ancora una volta il frate. 

Padre Melo aveva un’anima buona, ma era sempre triste, perchè fino ad allora aveva sempre dovuto accontentare il padrone, anche quando il suo dovere non gli piaceva per niente. 

In quel giorno caldo del lontano 1655, finalmente Padre Melo si sentiva rinato, perchè poteva fare qualcosa di buono. “Devo dare un nome al piccolo” pensò, e battezzarlo, perché il Signore possa proteggerlo da tutti i mali. 

Decise di chiamarlo Francisco e lo crebbe come un figlio. 

Quindici anni più tardi, Francisco andò da Padre Melo, in giardino, per parlare con lui: “Padre” disse… “ So che mi hai cresciuto bene, in un posto sicuro, ma io non sono nato qui vero?” 

“ Vero!” rispose il frate 

“ Quindi i miei fratelli non sono tutti fortunati come lo sono io…” 

“ No Francisco, il padrone ha deciso di aiutarti per qualche ragione, ma devi sapere che lui non è sempre buono con tutti.” 

“ Allora io voglio tornare là!” affermò Francisco. 

Padre Melo rabbrividì all’idea di non vedere mai più il suo figlioccio che tanto aveva amato, ma ammirava allo stesso tempo il suo grande coraggio. Ci pensò un po’ e poi rispose: “ Mio amato Francisco, io ti ho insegnato molto, ma forse è giunto il momento che tu segua la tua strada, vedi, tu non sei uguale alle persone che vivono qui, sei un ragazzo forte e virtuoso e grazie alla tua intelligenza puoi aiutare molte persone e così, mi renderesti molto fiero di te”. 

Francisco decise di tornare al villaggio dove era nato; desiderava che tutti i suoi abitanti avessero la possibilità di vivere come lui aveva vissuto: in una bella casa, con un bel giardino e gli animali. 

Giunto al villaggio, Francisco rimase sorpreso nel vedere un grande muro corazzato tutto intorno alle capanne e numerosi guerrieri armati di lance all’ingresso. 

“Chi sei?” gli chiesero le guardie. 

“ Sono nato in questo villaggio e sono tornato per proteggerlo” rispose lui. 

Le guardie lo fecero entrare, ma lo condussero dal Capo villaggio, che sedeva su una grossa sedia di legno di cocco. 

Ganga Zumba, grande capo e condottiero del Quilombo Dos Palmares, era un uomo nero e possente, portava vesti molto colorate e il suo collo era adornato da collane ed amuleti e non si separava mai dalla sua lancia, che era la più alta e affilata di tutto il villaggio. 

“Chi è questo giovane?” chiese curioso. 

“ Arriva da ovest” rispose una guardia. “ Non porta nulla con sé e dice di essere nato qui”. 

Ganga Zumba osservò Francisco con curiosità per un bel po’ di tempo. “’Come è possibile” pensò ” Sembra uno di noi: ha i miei stessi occhi, la mia stessa pelle e i miei stessi capelli, eppure la sua pelle è così liscia, le sue mani così morbide… non sembrano proprio quelle di un guerriero e di un giovane che tutti i giorni deve lavorare la terra per sfamare il villaggio”.

“Cosa ne facciamo di lui Capo?” sollecitò un’altra guardia 

“ Portatelo nella capanna dei prigionieri per ora, poi capirò se può restare” rispose il Grande Capo. 

Francisco si voltò senza rispondere e si fece scortare dalle guardie: voleva mostrare coraggio al suo popolo ed era sicuro che prima o poi tutti si sarebbero accorti che era uno di loro. 

E fu proprio così che avvenne: non appena si voltò, Ganga Zumba esclamò “ Aspettate!” … “ fatelo avvicinare!”. 

Il Grande Capo aveva notato una cosa sconvolgente: Francisco aveva sulla schiena una macchia scura, identica alla sua. 

“Io so chi sei tu” continuò Ganga Zumba” 

“Tu sei mio nipote Zumbì, rapito dai soldati ….come hai fatto a tornare?” 

“Me ne sono andato dal posto in cui mi hanno portato perché voglio aiutare il mio popolo”…“Ma il mio nome è Francisco” rispose confuso. 

“Tu sei un guerriero del Quilombo” gli spiegò Ganga Zumba “Sei nato per portare a termine il mio lavoro, quando io non potrò più difendere il villaggio” “Se vorrai restare, dovrai ricordarti chi sei e farti chiamare con il tuo vero nome: Zumbì!”. 

Zumbì si limitò ad annuire: in fondo, pensò, il suo nome d’infanzia era certamente più adatto ad un vero guerriero. 

Zumbì dormiva nella capanna di bambù, la più grande, dopo quella di Ganga Zumba; tutto il villaggio poneva grandi aspettative in lui. 

Se voleva diventare un abile condottiero, però, avrebbe dovuto superare l’addestramento ed allenarsi tutti i giorni nel campo dei guerrieri di Palmares. 

I suoi compagni erano molto invidiosi di lui e fecero di tutto per metterlo in cattiva luce nei confronti del Generale. 

Ogni giorno dovette superare una nuova sfida: scalare la grande montagna del Quilombo; superare il fiume del coraggio con tutte le sue insidie e gli animali pericolosi che si nascondevano sott’acqua; arrivare alla fine del percorso nella foresta, pieno di bersagli da colpire con lancia senza mancare un colpo ed allenarsi a combattere in una grande sfida di capoeira con il generale. 

Dopo i primi mesi di addestramento, Zumbì si sentì scoraggiato, pensò che non sarebbe mai riuscito a diventare il miglior guerriero del Quilombo e ad aiutare il villaggio, sentiva di essere il peggiore di tutti. 

Fortunatamente però, tra i suoi compagni, c’era qualcuno che non lo aveva mai discriminato o trattato come un incapace: era una bellissima ragazza dai capelli mori e lunghi, la più forte guerriera del villaggio, il suo nome era Dandara. 

Un giorno, mentre Dandara se ne stava seduta sotto ad una palma suonando il Berimbau, Zumbì decise di avvicinarsi a lei. 

“Ciao, posso disturbarti?” le chiese. 

Dandara continuò a suonare, ma gli rispose con un grande sorriso

 “Certo, cosa succede?” 

“Tu sei l’unica che non mi prende mai in giro come fanno gli altri, come mai?, credi che un giorno diventerò un abile guerriero?” 

“Certamente” rispose lei con un sorriso ancora più grande “Sai Zumbì, la capoeira ci insegna a guardare noi stessi e valorizzare la nostra unicità. Tu hai vissuto lontano da qui ed hai appreso molte cose, se guarderai solo te stesso e non più gli altri, sono sicura che in poco tempo sarai un guerriero fortissimo” “E’ per questo che tu sei così brava?” le chiese Zumbì, affascinato dalla sua semplicità. 

Ma lei non rispose e si allontanò sorridendo. 

Da quel giorno, Zumbì si esercitò impegnandosi al massimo ed apprese perfettamente tutte le tecniche di Capoeira, anche quelle più difficili. In breve tempo diventò uno dei più abili guerrieri, perché aveva imparato a sfruttare in combattimento le sue capacità, come le aveva suggerito la sua amica Dandara. 

Il Quilombo veniva costantemente attaccato dai suoi nemici. 

Fino ad allora, Ganga Zumba era riuscito a contrastarli, ma iniziava a temere che presto non sarebbe più riuscito a respingerli. 

Un giorno, un messaggero dell’ esercito dei Signori delle Piantagioni entrò nel villaggio per consegnare un trattato di pace al Grande Capo del Quilombo. 

Ganga Zumba, allora, riunì tutti i suoi generali e i guerrieri più valorosi, per proporre loro di accettare il trattato. Tra tutti, vi erano anche Zumbì e Dandara.

Nessuno sembrava contrario, tranne Zumbì. Avendo studiato molto, nel periodo in cui viveva con Padre Melo, egli era diventato molto saggio. 

Nella sala, si fece improvvisamente un grande silenzio. 

“Non possiamo continuare a combattere Zumbì” disse Ganga Zumba. 

“Questa è una trappola, signore!” affermò lui convinto 

“Ci chiedono di mandare da loro i nostri giovani più forti, ma io so come fanno, non li trattano bene e li costringono a lavorare nei campi” 

“Se non accettiamo però, prima o poi ci distruggeranno tutti” disse il Generale Maggiore del Quilombo 

“Sono tornato per combattere” esortò Zumbì “Sono pronto ormai! Io posso difendere il Quilombo!” 

“Se pensi di essere pronto Zumbì, io credo in te” disse lo zio al nipote. 

“Sono pronto!” 

“Allora da oggi, sarai tu il Grande Capo! È giunto il momento”. 

Zumbì era dotato di un grande intuito e, grazie agli insegnamenti di Padre Melo, aveva acquisito delle grandi abilità strategiche. 

I soldati dei Signori delle piantagioni erano in agguato proprio fuori dalle mura del Quilombo: anche se avessero firmato, non sarebbero mai stati risparmiati! 

Così, Zumbì guidò silenziosamente i guerrieri del Quilombo fuori dalle loro mura. 

Non appena si affacciarono, videro i soldati nemici appostati e pronti all’attacco, proprio come lui aveva predetto. 

Grazie alla loro abilità nella Capoeira, misero tutti i nemici in fuga e gli intimarono di non tornare mai più. 

Quella sera nel villaggio ci fu una grandissima festa a ritmo di atabaque e berimbau, dove tutti danzarono e festeggiarono fino all’ alba. Fu proprio in quella notte che Zumbì, Re del Quilombo Dos Palmares, chiese la mano della principessa guerriera Dandara per farla sua sposa. Da quel giorno in poi gli abitanti del Quilombo non ebbero mai più paura, perchè a difenderli c’erano il Re e la Regina più coraggiosi della storia del Brasile.