Pic Nic e Capoeira

Venerdì 2 giugno ci troviamo al Parco di Trenno per mangiare insieme, stare insieme e soprattutto, fare capoeira!

Dopo il pranzo ci sarà una lezione per i bambini aperta a tutti e seguire roda adulti e bambini!

Ognuno porta qualcosa da mangiare e si condivide 🙂

Non vediamo l’ora!!!!

Capoeira genitore – bambino:

Il gioco è una cosa da grandi

Perchè giocare con i nostri figli è importante? Attraverso il gioco i bambini conoscono il mondo ed imparano le dinamiche sociali che gli permettono di essere competenti in qualsiasi contesto sociale.

Giocare permette di sperimentare sensazioni ed azioni, senza che essi abbiano effetti reali. Ecco, quindi, che il bambino che gioca a “fare la mamma” o a “fare la lotta”, sperimenta condizioni che non sono reali, ma che gli permettono di sentire le proprie emozioni e, attraverso di esse, riconoscersi e conoscersi, nei propri desideri, abilità e anche nelle proprie fragilità.

Due è meglio che uno

I genitori sono il riferimento primario per i figli, sono un modello che permettono ai piccoli di capire cosa è giusto o sbagliato e come orientarsi nel mondo esterno. Le esperienze che i bimbi vivono tutti i giorni, quindi, sono costantemente mediate dalla relazione con i propri genitori, con più o meno consapevolezza.

Partecipare al gioco del bambino è un’ottima strategia per “entrare” nel suo mondo magico e conoscerlo nel profondo dei suoi sentimenti.

Si aprono così le porte per uno scambio di informazioni che si muove su tutto un altro livello rispetto a quello della vita quotidiana: si entra in una dimensione intima, privata ed estremamente preziosa. Il bambino può farsi conoscere nella sua interezza e, dall’altro canto, il genitore può garantire una maggiore funzione adattiva, rappresentando un modello positivo per la sua crescita.

Giocare Capoeira insieme

Per un adulto, entrare nel mondo ludico dei più piccoli non è una cosa molto semplice: bisogna ritornare un po’ bambini e recuperare quella confidenza con il movimento, che il nostro corpo ha perduto.

Per tornare ad esprimersi attraverso il corpo e lasciarsi andare al piacere del movimento, serve uno strumento che faccia da “collante” e che agevoli il compito.

La capoeira è un mezzo eccezionale per guidare genitori e bambini nel gioco, perchè ha tutti gli elementi che facilitano il dialogo corporeo.

Per tutti i livelli

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, fare capoeira è estremamente facile: gli esercizi basici non richiedono particolari abilità o competenze motorie. Essa si basa, più che altro, sulla sperimentazione dei movimenti per trovare il modo migliore di comunicare con il compagno, all’interno di un dialogo fatto da attacchi e difese.

Turnazione e strategia

“Prima io, e poi tu” è un concetto semplice da comprendere ma difficile da attuare, specialmente per i più piccoli. Capoeira insegna ad attendere ed osservare l’altro, prima di agire. Si dice che, in questo senso, sia come “un gioco di scacchi”.

Musica e ritmo

Cantare e muoversi a ritmo di musica, sono da sempre le attività che più suscitano interesse nei bambini. La musica è un forte veicolo di emozioni e favorisce una maggiore connessione e sintonia emotiva.

Nella capoeira la musica guida il gioco: il ritmo suonato dagli strumenti determina un diverso tipo di gioco, e, in base ad esso, genitori e figli possono sperimentare diversi modi di interagire, imparando così, l’uno dall’altro.

E ALLA FINE DIVENNERO AMICI

La Capoeira Angola di Mestre Pastinha

Il suo incontro con la capoeira fu voluto dal destino, aveva solo undici anni quando incontrò per la volta il suo maestro Benedito.

Vicente Ferreira Pastinha era un giovanotto dalla corporatura esile e dalla carnagione color caramello.

Ogni qual volta che usciva di casa per andare a fare compere, incontrava un altro giovanotto, più grande di età, che aveva una muscolatura assai robusta e massiccia, tutto il contrario di lui. Costui faceva sempre il gradasso e gliene dava di santa ragione, senza alcun motivo.

Ma, prima o poi, tutte le azioni cattive hanno un prezzo da pagare: c’è sempre qualcuno più forte di te! Per quel ragazzaccio arrogante, le cose andarono esattamente così.

Un giorno, guardando fuori dalla finestra di casa sua, un anziano signore africano vide tutta la scena e si sentì molto dispiaciuto per quel gracile ragazzino innocente, che non meritava di essere preso a pedate da un pallone gonfiato che si credeva chissà chi.

Sentiva di voler fare qualcosa ma pensò che intervenire non era la soluzione migliore: il ragazzino si sarebbe sentito ancora più debole e sminuito se veniva difeso da un nonnetto come Mestre Benedito.

La cosa buffa è che osservandolo non ci si poteva mica immaginare che quel vecchietto, in realtà, era un grande capoeirista e che con un solo colpo poteva mettere a terra qualunque l’avversario.

Quella notte l’anziano capoerista non riusciva a dormire, disturbato dal pensiero delle continue zuffe tra i due ragazzini e, l’indomani, vedendo dalla finestra arrivare il giovane Vicente gli andò incontro.

Vicente rimase molto sorpreso nel vederlo avvicinare, non riusciva a comprendere le sue intenzioni.“Forse”, pensò, “vorrà un pezzo di pane o una moneta perché è rimasto solo”.

Il Mestre però si limitò ad fargli un cenno e a bisbigliargli da lontano: “pssss pssss” … “giovanotto” … “domattina svegliati presto e, prima di andare a comperare il pane, passa nel mio Cazuà (che era la sua casa: un luogo sicuro dove stare bene e praticare capoeira), ti aspetto alle sette in punto, ti raccomando, non fare tardi!”

Il piccolo Vicente era piacevolmente incuriosito, ma voleva saperne di più, così di avvicinò all’anziano signore e gli chiese “come mai dovrei venire da Lei signore?”

“Ho assistito fin troppe volte alle tue zuffe con quell’arrogante sbruffone e voglio aiutarti” … “tu non puoi batterti con lui, sai, perché lui è più robusto e grande di età. Il tempo che perdi ad accumulare rabbia, lo puoi spendere meglio qui con me. Voglio insegnarti qualcosa di grande valore.”

Ancora più colpito e affascinato, il piccolo Vicente decise di ascoltare il suo consiglio e, il giorno seguente, si presentò per la prima volta alla sua porta.

Da quel giorno in poi, si presentò ogni giorno al cospetto di Benedito sempre puntuale , attratto dai suoi modi gentili e dal fascino del suo insegnamento.

Ci mise un po’ per comprendere il valore di ciò che il suo maestro gli stava insegnando: molte cose che lui gli mostrava erano alquanto bizzarre e spesso si domandava come poteva usare quelle strane mosse per difendersi.

Anche se la curiosità era molta, egli non fece troppe domande e decise di fidarsi della saggezza del vecchio.

Infondo, pensò, nessuno si era mai tanto interessato a lui in quel modo.

Il maestro gli dedicava ore e ore, era proprio affezionato al piccoletto!

Il Mestre parlava poco, anzi, spesso non diceva niente più che “seguimi Pastinha!” (il Mestre lo chiamava per cognome) e si metteva a fare uno strano ballo oscillando qua e la per la stanza con dei movimenti morbidi e lenti.

Ogni volta che il piccolo Pastinha lo vedeva si metteva a ridere tra e sé e sé “mi ricorda una buffa zebra che saltella qua e la” pensava in modo giocoso e affettuoso, senza però darlo mai a vedere.

Non potendo rifiutarsi di provare anche lui, si buttò con slancio nella “danza della zebra” nella quale si sentiva estremamente goffo ed impacciato. Ammirava invece l’agilità con cui Mestre Benedito si muoveva, malgrado l’età.

“Mestre” … “quando imparerò a difendermi?” osò chiedergli un giorno.

“Stai già imparando mio caro” e, sorprendentemente quel giorno si mise a parlare a lungo.

“Ragazzo” … gli disse … “dovrai avere pazienza, quello che ti sto insegnando è qualcosa di prezioso, è un modo di pensare, è un’attitudine che creiamo dentro di noi, devi imparare ad essere scaltro, solo allora potrai lottare con la malizia degli africani della mia terra, l’Angola”.

Fu proprio in quel momento che Pastinha iniziò a comprendere che il suo maestro era pieno di segreti ancora da svelare e che questi andavano ben oltre le tecniche di lotta.

Un giorno, inaspettatamente, Mestre Benedito era di ottimo umore. Se ne stava seduto e suonava uno strumento fatto da un bastone, un filo di rame e da una zucca, il birimbau! Rideva allegro e cantava canzoni popolari che il giovane Pastinha aveva già sentito prima, delle quali, però, non aveva mai ascoltato bene le parole. La sua musica parlava di schiavi, marinai, donne e bambini, storie di gente comune che sembravano non avere niente a che fare con la Capoeira che gli stava insegnando.

“Eccoti qua ragazzo” gli disse poco dopo aver interrotto la musica “gioca Capoeira figlio mio, e ti raccomando, segui il ritmo!”

Pastinha lo guardò dubbioso, ma ormai aveva deciso di fidarsi di lui e non poteva certo tirarsi indietro.

Provò a mettere in pratica tutti i movimenti che Mestre Benedito gli aveva mostrato in quei giorni, ma sentiva che proprio non ci riusciva. Cercava di ricordare cosa faceva, ma era davvero difficile, il maestro era molto lento nei movimenti ma in qualche modo riusciva a passare velocemente da una posizione all’altra. Come ci riusciva era un mistero e lui proprio non capiva come mai il Mestre non gli aveva mai voluto dare qualche spiegazione in più.

Dopo qualche goffo tentativo, si bloccò come se fosse congelato.

Iniziava a sentire la rabbia e la frustrazione salire dentro di sé, perché proprio non capiva cosa fare e iniziava a pensare che stesse sprecando tempo prezioso.

“Cosa ti succede?” gli chiese Benedito, smettendo nuovamente di suonare

“non sono capace di fare come fai tu” … “non mi ricordo i passi” rispose lui.

Il Mestre si mise a ridacchiare allegro “non devi ripetere i miei passi , la mia Capoeira Angola può essere fatta solo seguendo la naturalità dei tuoi gesti, il tuo ritmo interno, devi sentirti libero figliolo, solo così imparerai a lottare a modo tuo”

“Ma quello che tu fai Mestre non c’entra niente con la lotta” rispose il piccolo Pastinha, confuso da ciò che non riusciva a capire.

Mestre Benedito non si sentì minimamente offeso dalle parole del giovane, si limitò a dire “coraggio ragazzo, gioca capoeira” e riprese a suonare e cantare. Pastinha non ebbe alternativa e provò a lasciarsi andare, infondo, era divertente muoversi in quel modo strambo per tutta la stanza e non aveva nulla da perdere.

Iniziava a prenderci gusto quando il Mestre, soddisfatto nel vedere il suo amato allievo lasciarsi andare, smise definitivamente di suonare.

“Continua a muoverti come prima ragazzo, non ti fermare” … “ascolta la musica nella tua testa” gli disse.

Pastinha iniziava a sentirsi del tutto a suo agio, aveva trovato il suo modo di muoversi nella stanza e non si preoccupò troppo quando Mestre Benedito si mise a muoversi insieme a lui.

Sembrava un allenamento come tutti gli altri giorni.

Tutto ad un tratto, però, il Mestre allungò il piede dietro alla sua caviglia e, con un movimento rapido e deciso, lo mise al suolo senza che nemmeno se ne accorgesse.

Il giovane Pastinha ci rimase di sasso. “Come diavolo ha fatto?” si domandò.

“Non stare li fermo amico mio” … “alzati e continua a giocare capoeira” disse il Mestre.

Ma non appena lui si alzò e fece qualche passo, ecco che di nuovo il Mestre lo fece cadere al suolo.

E così continuarono fino a sera, finché il saggio maestro non dichiarò terminato l’allenamento del giorno.

“Sei stato molto bravo oggi” gli disse “domani riprendiamo da qui”.

Pastinha si sentiva confuso, a lui non sembrava che tutto andasse per il meglio, però aveva smesso di mettere in dubbio ciò che il suo maestro gli insegnava, anche perché capiva che egli sapeva il fatto suo.

Il giorno seguente l’allenamento riprese allo stesso modo ma, questa volta, sorprendentemente il giovane Pastinha iniziava a prevedere quando il Mestre lo voleva far cadere e, a volte con un salto, altre schivando le sue spazzate riusciva a sfuggirgli.

Passarono i giorni e sempre di più Pastinha riusciva a schivare e prevedere i suoi movimenti in anticipo e si sentiva sempre più soddisfatto.

“Mestre Benedito” gli chiese ad un certo punto “quando imparerò a fare come te? Anche io voglio riuscire a far cadere l’avversario, così finalmente posso far cadere quel ciccione sbruffone”.

“Calma ragazzino” rispose lui “non provocare mai, fai in modo che l’altro si accorga pian piano di ciò che sai fare”

“Ho capito Mestre, le sono molto grato di averla incontrato”.

Arrivò la domenica e Pastinha si incamminò per andare a comperare il pane. Da quando aveva iniziato ad allenarsi nel cazuà del Mestre, era solito prendere un’altra strada, passando per un sentiero segreto che egli gli aveva suggerito. Non si sarebbe mai aspettato di trovare davanti a sé proprio il suo aguzzino, il quale, evidentemente, lo aveva spiato e seguito.

“Eccoti qui, ti ho trovato finalmente!” “dove ti eri nascosto piccoletto codardo?” “ora me la pagherai per tutte le volte che sei sfuggito da me”

Lui non rispose e si mise a gingare, suscitando una grassa risata del suo rivale. “Che cosa stai facendo piccoletto?” disse il ragazzaccio a Pastinha, ma lui lo ignorò.

Continuava a sentire il ritmo del berimbau nella sua testa e, attese che l’avversario facesse il primo passo.

Ecco che subito il ragazzaccio cercò di sferrargli un pugno, che lui schivò prontamente. Dopo il primo tentativo, ne seguirono altri e altri ancora. Calci, pugni, non sapeva più cosa provare per prendere Pastinha.

Il suo rivale iniziava ad essere stanco, il suo volto era rosso come un peperone, un po’ per lo sforzo e un po’ per la rabbia: non sopportava di essere beffato in quel modo. “Adesso gli faccio vedere io” pensò, prese la rincorsa e si lanciò verso di lui come per dargli uno spintone ma Pastinha lo schivò e, in qualche modo, riuscì a farlo cadere a terra, proprio come faceva il suo maestro. Ancora non credeva a quello che era riuscito a fare: senza nemmeno accorgersene, aveva appreso tutto ciò che gli serviva per affrontare il suo avversario.

Fu proprio in quel momento in cui Pastinha comprese meglio ciò che voleva dire quel vecchietto, incontrato un giorno per caso, quando gli diceva che Capoeira è un modo di pensare. Solo grazie alla pazienza, alla malizia, all’astuzia e alla furbizia degli africani dell’Angola si può avere la meglio nella lotta e nella vita.

Il giovanotto si alzò da terra, ancora stordito dalla botta della caduta e, con un filo di voce gli disse “ma come diavolo hai fatto? dove hai imparato a fare queste cose?”.

Pastinha lo guardò con compassione, finalmente era lui il vincitore, ma proprio non si sentiva a suo agio nella parte del cattivo. Decise allora di tendergli la mano ed aiutarlo a rialzarsi.

Da quel giorno in poi i due divennero persino amici, certo non di quegli amici inseparabili ma nutrivano una certa stima l’uno l’altro e si cambiavano calorosi saluti ogni qual volta che si incontravano per strada.

Passarono gli anni e Pastinha continuò a seguire il suo caro maestro che tanto gli aveva dato e molto aveva ancora da dare. Crescendo andò per la sua strada ma portò per sempre con sé sopratutto il concetto della Capoeira come un’arte amorevole, non perversa, un modo di fare e pensare come un altro, un’attitudine cortese che creiamo dentro di noi¹.

Divenne uno dei Mestre di Capoeira più importanti della storia. La Capoeira Angola vive ancora oggi grazie al suo grande lavoro e alla sua costante dedizione per fa sì che tutto il mondo sapesse come “essere zebra” ed usare la malizia e l’astuzia, al posto della forza.

Quanto sarebbe bello se il grande Mestre Pasthina sapesse che la sua Capoeira Angola, oggi, è conosciuta in tutto il modo e che tantissimi capoeirsti seguono ancora i suoi insegnamenti. Il Mestre sarà per sempre nei nostri cuori e ci ricorderà sempre che la Capoeira è molto di più di ciò che si può immaginare: Capoeira è tutto ciò che la nostra bocca può mangiare!

História do Mestre Pastinha – Mestre Moraes
Maior è Deus – Mestre Pastinha (ladainha)


Maior é Deus
Maior é Deus, pequeno sou eu
O que eu tenho
Foi Deus que me deu
O que eu tenho
Foi Deus que me deu
Na roda da capoeira
Grande e pequeno sou eu …


Dio è il più grande
Dio è il più grande, io sono piccolo
(Tutto) quello che ho
E’ stato Dio a darmelo
(Tutto) quello che ho
E’ stato Dio a darmelo
Nella roda di capoeira
Io sono grande e piccolo …

BIMBA E’ LA STELLA Che brilla di saggezza

Era un caldo giorno di novembre del 1899. 

Una donna sedeva su una panchina, appena fuori da casa sua, sventolando un ventaglio per tentare di rinfrescarsi. 

Aveva una pancia così grande che riusciva a malapena a vedere i suoi piedi se rivolgeva lo sguardo verso il basso. 

Aspettava un bambino che sarebbe nato di lì a poco. 

La levatrice si sedette al suo fianco, si fece passare il ventaglio e si mise a sventolarlo per lei. 

“Devi avere pazienza” le disse mettendo una mano sul suo pancione “ci siamo quasi, lo sento, sarà un maschio”. 

Maria Martinha do Bonfim era invece convinta di portare in grembo una femminuccia. 

Rimase molto colpita quando, il 23 novembre, diede alla luce il piccolo Manoel: la levatrice aveva proprio ragione. 

Quella scommessa, fatta ancora prima che nascesse, fece sì che Manoel venisse chiamato, fin dalla nascita, con il soprannome di “Bimba”. 

La sua, era una famiglia umile di Salvador, una delle più belle città del Brasile. Suo padre, era un uomo molto dedicato al lavoro e un grande campione di Batuque: un tipo di lotta molto dura che si praticava un tempo. 

Inutile dire quanta ammirazione provasse Bimba per lui. 

Come il padre, anche lui era un gran lavoratore e, non potendosi permettere altro, lavorava come scaricatore di porto. 

Non smetteva però di sognare un futuro migliore, per sé ma anche per gli altri. Per chi, come lui, discendeva da famiglie con un passato di schiavitù e aveva una carnagione scura, non c’era molta possibilità di avere un futuro roseo. 

Le persone che avevano una vita agiata erano solo i bianchi, loro potevano studiare e fare lavori più soddisfacenti come il banchiere o il maestro o il dottore. 

Come avrebbe potuto quindi riscattarsi un giovane nero come lui, che non sapeva né leggere né scrivere? Beh…lui passò tutta la sua vita provandoci. 

Bimba aveva un grande dono: era dotato di grande saggezza. 

Sapeva aiutare tutti, dava consigli preziosi ed era una persona rispettata e ammirata da tutto il quartiere. Che ci crediate o no, conquistò il titolo di “Mestre” proprio in questo modo: lui era un “maestro di vita” ancora prima di essere uno dei più grandi capoeristi della storia. 

Divenne capoerista quando, all’età di dodici anni, iniziò a seguire il suo maestro Bentinho e frequentando le strade di Salvador, come molti altri giovani della sua età facevano. 

In cuor suo, però, sentiva che quel modo di fare capoeira non andava bene: azzuffandosi per strada la gente non li avrebbe visti di buon occhio. 

“Aprirò una palestra”…pensò “metterò delle regole e farò in modo che l’arte della capoeira non si impari più in strada”. 

Ma il cammino non fu così breve. 

Aveva circa trentatré anni quando fondò la sua scuola di capoeira proprio nel quartiere del Pelourinho, il cuore della città. Era soprannominata scuola di “Luta Regional Bahiana” (lotta regionale bahiana). 

“Prenderò i colpi micidiali del Batuque, compresi i segreti che mio padre mi ha insegnato, e li unirò a quelli della Capoeira Angola”. 

La Capoeira Regional di Mestre Bimba era una lotta efficace, composta da 52 colpi, ma, nonostante questo, lui associava la capoeira alla libertà individuale e di esprimersi: ognuno può avere la propria ginga e il proprio modo di muoversi in roda. 

“E’ essenziale gingare sempre!” diceva ai suoi allievi “e seguire sempre ciò che il Berimbau comanda”. 

Ecco…queste forse erano le uniche due regole su cui era veramente intransigente, altrimenti non è capoeira! 

Aveva già molti allievi e la maggior parte erano studenti universitari che frequentavano il quartiere. 

Mestre Bimba aveva una personalità così forte che in molti seguivano i suoi insegnamenti di vita, era una guida stimata e apprezzata dalla comunità.

Tuttavia, questo non gli bastava. Bimba si sentiva un clandestino perché ciò che faceva non era riconosciuto dal governo. 

Negli anni ’30, In Brasile, come un po’ in tutto il resto del mondo: neri e bianchi non avevano le stesse opportunità e i neri spesso erano emarginati. Su alcuni giornali, però, comparivano articoli di giovani ragazzi di origine africana, più o meno della sua età, che grazie allo sport, erano visti come eroi, come Jessie Owen, un corridore o Joe Louis, un pugile. 

“Ecco cosa posso fare” … “posso sfidare sul ring tutti i lottatori del Brasile. Nessuno sarebbe in grado di battermi e grazie alla mia fama, mi guadagnerò l’appoggio del governo”. 

Era il 6 febbraio del 1936 e, nella Piazza da Sé, proprio accanto alla chiesa, venne inaugurato l’Odeon, un centro di sport e spettacolo dove i ricchi signori assistevano agli incontri di lotta. 

Sul volantino della programmazione dell’ Odeon si leggeva anche il nome di Bimba. 

Quella mattina Bimba si svegliò all’alba e chiese a sua moglie, Agripina, di preparargli la sua solita colazione. 

Amava mangiare abbondantemente per essere in piena forma per affrontare la giornata, specialmente prima di un incontro. 

Il menu mattutino prevedeva: pesce grigliato, quiabada (uno stufato di carne e verdure miste), spezzatino di carne con le uova e il tutto accompagnato da un buon caffè. 

Dopo la super colazione e un buon riscaldamento muscolare ecco che Bimba si reca all’ Odeon per la sfida. 

Il suo sfidante era un tale di nome Henrique Bahia, che quasi nessuno conosceva. Al contrario, Bimba era già conosciuto per la sua capoeira e in molti tifavano per la sua vittoria. 

“Notte di stelle nell’Odeon 

Brilla Bimba 

Bimba è la stella

Bimba è Bamba 

campione bahiano di Capoeira” 

Recitavano i quotidiani che pubblicizzavano l’incontro. 

Il gioco iniziò calmo e lento: gli avversari si studiavano per bene. Bimba si muoveva con agilità e passi felini. 

Poco dopo, salì la tensione e il gioco terminò quando riuscì a proiettare l’avversario, Henrique Bahia, al pavimento con uno dei suoi movimenti disequilibranti. 

Il pubblico era in fervore, tutti si alzarono in piedi per applaudire il lottatore più esemplare della serata. 

“Bimba è Bamba!” gridava la folla impazzita. 

Fu solo uno dei tanti incontri a cui Mestre Bimba partecipò, uscendo sempre vincitore e conquistando sempre maggiore fama. 

Sempre più persone bussavano alla porta della sua scuola per imparare da lui. 

Chi voleva farne parte, però, doveva essere un lavoratore o uno studente, non accettava nullafacenti! 

Era il 2 luglio del 1936. Quell’inverno fu veramente speciale per Mestre Bimba e per tutta la storia della capoeira. 

Pochi giorni prima, il Mestre aveva ricevuto un invito del tutto insolito: il governatore Juracy Magalhães in persona, gli chiedeva di andare al Palazzo del Governo con la sua “turma” (tutti i suoi allievi migliori), per esibirsi nella capoeira, in occasione della “festa della liberazione del Brasile”. 

“Potrebbe essere una trappola” pensò in un primo momento “ci sarà sicuramente molta polizia e potrebbero benissimo catturare tutti quanti, dimostrando così, la superiorità dei bianchi, ancora una volta..”. 

Quasi tutti i suoi amici e i suoi allievi pensavano lo stesso. “Noi andremo!” disse “è un’occasione per conquistare ancora di più il favore del popolo, è la nostra occasione per dimostrare che non tutti quelli di etnia afro-brasiliana sono dei delinquenti e che la capoeira è un’arte, non una lotta di strada”.

Quando Mestre Bimba prendeva una decisione, i suoi discepoli lo seguivano, senza mettere niente in dubbio. 

Ecco quindi che la “turma di Bimba” si preparava a partire per la Piazza Municipale, dove si sarebbe svolta l’esibizione. 

Tutti quanti erano vestiti in modo impeccabile: indossavano calzoni e magliette bianche di cotone e scarpe eleganti. Il Mestre esigeva un certo tipo di abbigliamento nella sua scuola: voleva distinguere i suoi allievi dai capoeristi di strada. 

“Nessuno si allena da me senza la maglietta” diceva sempre ai suoi allievi “e nemmeno con i sacchi delle patate al posto dei calzoni o senza la cintura” … “che figura ci facciamo se vi cascano i calzoni mentre fate capoeira?” 

Ci teneva proprio alla forma! E perchè di bianco? Beh non è che il Mestre voleva per forza che gli allievi indossassero abiti bianchi però, ai quei tempi, in Brasile, chi si vestiva di bianco erano le persone di una certa importanza e loro dovevano proprio darsi importanza, specie in quella occasione. 

Il momento dell’esibizione era vicino, la piazza era piena di gente, tutti desiderosi di vedere lo spettacolo. 

Sei di loro si misero agli strumenti e gli altri sei erano pronti per mostrare i migliori colpi della Capoeira Regional. In questa occasione speciale, Bimba scelse di non utilizzare la classica impostazione della Charanga, la sua batteria di musicisti con un solo berimbau e due pandeiros. Quella l’avrebbero lasciata per la roda, una cosa per soli capoeristi, non per il popolo. 

Meia lua a destra, meia lua a sinistra, armada a destra e armada a sinistra e molti altri colpi speciali furono clamorosamente mostrati dai grandi capoeiristi di Bimba. Ma quello ancora non era niente in confronto al finale che il Mestre aveva in serbo. 

Era qualcosa di mai visto prima, tutti rimasero a bocca asciutta, increduli. “Woooooow”… si udiva dal pubblico “ohhhhhh”, “incredibile!” “sensazionale!” 

La “Cintura desprezada” era la grande sorpresa. 

Mestre Bimba aveva ideato questa sequenza speciale, da svolgere in coppia, che ogni allievo doveva imparare e fare nel giorno della sua formatura, cioè il giorno in cui riceve ufficialmente il riconoscimento di “Aluno Formado” assieme al tanto desiderato foulard blu. 

Le varie coppie di esibirono quindi in questa sequenza di Balões, i famosi movimenti che Bimba chiamava “di proiezione”. 

Bimba fece un aù e subito dopo una bananeira, il suo allievo lo bloccò nell’ apanhada, una forte presa dalla quale lui uscì lanciandosi in aria, arrivando quasi a toccare il cielo. Poi girò su sé stesso ed atterrò di schiena. 

Aveva così tanto equilibrio e padronanza dei suoi movimenti che non fece nemmeno il minimo rumore quando appoggiò i piedi al suolo. 

Ma non era finita lì, Bimba si abbassò ed aprì le gambe “a forbice” per incastrare a sua volta l’avversario in un’altra presa cattivissima: la tesoura de costa. Lui era allenato ad uscire e scappò con una semplice aù. 

Entrambi riprendono poi a gingare. L’altro lo strinse al collo in una morsa letale ma Bimba gli sfuggì per poi sbam! lanciarlo a terra. 

L’allievo, preparato, atterrò leggero come una piuma, nonostante l’impatto del lancio. 

Gli spettatori applaudirono entusiasti e Bimba e la sua turma tornarono a casa contenti. 

Per la prima volta la capoeira era stata inserita in una festa di importanza nazionale e presentata come una parte importante della cultura brasiliana. 

Un anno dopo la sua scuola divenne riconosciuta ufficialmente dal governo come “Centro di Cultura Fisica e Capoeira Regional”. 

Mestre Bimba finalmente era riuscito a convincere le autorità del valore culturale della Capoeira. 

Tutto qui? Ovviamente no, è grazie a Mestre Bimba che successivamente il presidente Getulio Vargas, dopo aver assistito ad un’altra sua presentazione, affermò che la capoeira sarebbe stato l’unico sport nazionale del Brasile e fece in modo che fosse insegnata nelle scuole. 

Mestre Bimba aveva un sogno, un sogno enorme, e poche possibilità di raggiungerlo facilmente. Era un uomo semplice, ma molto saggio: così saggio da riuscire ad andare oltre ai preconcetti. Scelse una strada molto diversa rispetto a tutti i capoeiristi della sua generazione, quella della giustizia. 

Fu innovativo e non si lasciò scoraggiare da nessuno. E’ grazie a lui che esiste la capoeira che conosciamo oggi, quella che insegna una morale, che ci guida nella vita di tutti i giorni e non quella che porta sulla cattiva strada.

Mestre Bimba continua a brillare ancora oggi, in ogni nostra singola ginga.

scritto da: Elisa Gnecchi

SCAPPATE RAGAZZI! Che io sono Maculelê

Gonne di paglia svolazzanti, il viso pitturato di nero, rosso o bianco come i guerrieri Indios dell’Amazzonia, due bastoni, un cerchio e gli atabaque che rimbombano al suono del ritmo di Maculelê. 

Ecco quello che succedeva nel XVIII secolo nelle piazze di Santo Amaro da Purificaçao e si vede ancora oggi negli spettacoli di Capoeira. 

Succede per tramandare una tradizione, per non dimenticare eventi del passato, che ci servono per migliorare il futuro. 

È una danza che rappresenta la resistenza: la parte iniziale serve a spaventare il nemico, poi c’è lo svolgimento della battaglia e una parte finale che rappresenta la vittoria. 

In pochi, però, sanno che tutto ciò viene da alcune leggende che sono state raccontate dagli anziani capoeiristi. 

Tra tutte le storie, ve ne racconterò una che inizia in un villaggio tribale dell’Africa nera. 

Era l’epoca del Regno di Ioruba, nel XV secolo e, in piccolo villaggio della popolazione Bantu, c’era un giovanotto di nome Maculelê. 

Egli era diverso da tutti gli altri maschi della tribù: era esile e non aveva affatto l’aspetto di un guerriero o di un cacciatore. 

Nel suo villaggio, già in tenera età, i maschi imparavano ad andare a caccia nella foresta e a lottare per difendere il villaggio, semmai arrivassero degli invasori. Lui, invece, amava raccogliere le bacche, cucinare e accudire i bambini più piccoli, proprio come facevano le donne. 

Ogni qual volta che Maculelê usciva con il padre e gli altri uomini del villaggio per andare a caccia, veniva deriso e considerato un debole. 

Con il suo arco, non riusciva nemmeno a sfiorare un montone e le frecce gli scivolavano spesso tra le dita ancor prima di tendere la corda. 

Suo padre sembrava deluso da lui, unico figlio maschio della famiglia. 

La verità era che a lui non piaceva la guerra, gli sembrava una cosa senza senso, pensava che un mondo pacifico sarebbe stato un mondo migliore.

Oramai tutto il villaggio aveva perso le speranze con lui e nessuno cercava più di convincerlo a diventare un cacciatore. 

Col tempo, smise di partecipare alle battute di caccia, perché era considerato da tutti un impedimento. Era più utile se restava ad aiutare il villaggio.

Passava quindi sempre più tempo tra le capanne della tribù aiutando tutti quanti: donne, bambini ed anziani. 

Un giorno, tutti gli uomini del villaggio si riunirono in una capanna e anche i più giovani presero parte all’incontro. 

Maculelê aveva ormai 17 anni ma poco era cambiato rispetto a quando era in tenera età. 

I grandi, stavano parlando di un attacco alla tribù nemica, ma lui non vi prestava attenzione, intento com’era ad incastrare denti di serpente in un filo, per fare una nuova collana. 

Ogni tanto qualcuno posava gli occhi su di lui e scuoteva la testa a destra e sinistra come segno di disapprovazione. 

Suo padre avrebbe voluto sprofondare nel terreno, ma fingeva di non accorgersene nemmeno. 

“Le nostre coraggiose sentinelle hanno visto che il nemico è vicino….” diceva nel frattempo il Grande Capo del villaggio “…si stanno nascondendo non lontano da qui, vicino al fiume”…. “vogliono farci un’ imboscata” 

“Dobbiamo sorprenderli!” disse un uomo grosso con i capelli bianchi che sedeva in prima fila 

“Esatto!” continuò il Grande Capo “le donne si prenderanno cura dei bambini e degli anziani e tutti noi andremo al fiume, non ci fregheranno!”. 

Ecco che tutti si alzarono e fecero l’urlo dei guerrieri del villaggio “oh oh oh tagatum tagatum…” erano pronti per partire all’attacco! 

Si crearono due file e tutti gli uomini si prepararono ad uscire dalla capanna, senza smettere di urlare. 

Improvvisamente però, il Grande Capo, con il solo movimento della sua lancia, interruppe tutto. 

Calò il silenzio e tutti i presenti si guardarono intorno per capire cosa fosse successo di tanto importante da fermare quell’energia. 

“ Maculelê!” disse il Capo con voce grossa e ferma “tu rimarrai al villaggio, non è sicuro portarti con noi, saresti solo un piantagrane! Tuo padre non è mai riuscito a crescerti come un vero uomo, se verrai con noi, non farai altro che disonorarlo ancora di più”. 

Tutti scoppiarono a ridere a crepapelle, poi si voltarono e tornarono sui loro passi. 

Maculelê rimase fermo immobile, una lacrima iniziò a scorrergli sulla tenera guancia; lui cercava di trattenere il pianto, per non apparire ancora più debole, senza tuttavia riuscirvi. 

Suo padre avrebbe tanto voluto rimanere con lui, abbracciarlo forte e dirgli che lo amava per quello che era, ma non poteva. 

Egli era profondamente addolorato per la fragilità del figlio, di cui si sentiva forse responsabile. 

Fu l’ultimo ad uscire e non tolse mai lo sguardo da lui, per mostrargli il suo dispiacere nell’unico modo possibile, ma poi dovette partire con gli altri. 

Maculelê corse alla sua capanna con gli occhi sempre più lucidi e pieni di rabbia. 

Non volle parlare più con nessuno e si chiuse in sé stesso. 

Passò la notte a rimuginare su quanto accaduto il giorno prima e pensò al bene che faceva alle persone del villaggio, nonostante pochi se ne accorgessero. 

Gli anziani lo adoravano perché lui era così gentile e generoso che faceva per loro le faccende più faticose come portare i secchi d’acqua dal pozzo alle capanne, oppure i lavori di riparazione per chi ne avesse bisogno. 

Le donne apprezzavano molto il suo aiuto nelle pulizie o ad accudire i bambini e farli giocare. 

Tutti quelli che restavan al villaggio nutrivano un sentimento di grande stima per Maculelê e anche lui, di conseguenza, era affezionato a tutti loro. 

Si fece l’alba e Maculelê si svegliò di soprassalto perché aveva sentito uno strano rumore. 

Decise dunque di uscire cautamente dalla capanna per controllare che andasse tutto bene. 

Rimase incredulo quando vide un gruppo di guerrieri della tribù nemica avvicinarsi al villaggio. 

Si muovevano lentamente per non fare troppo rumore e i loro movimenti ricordavano quelli degli animali. Stavano raggiungendo le capanne. 

“Ci hanno ingannati” pensò “ci hanno fatto credere che ci stavano attaccando per distrarci, ora non c’è più nessuno a difendere il villaggio e siamo molto più vulnerabili, inoltre non abbiamo armi”. 

Le sue gambe iniziarono a tremare, non sapeva cosa fare, non avrebbe mai fatto in tempo a cercare rinforzi, oramai poteva contare solo su se stesso. 

Ma il tempo era troppo poco anche per pensare ad una strategia. 

I guerrieri della tribù nemica avevano già raggiunto la zona abitata. Stavano per entrare a saccheggiare le capanne e avrebbero distrutto tutto quanto. 

Agì d’istinto. 

Dentro di sé ribolliva ancora di rabbia per il discorso del Capo Villaggio. ma ancora di più, amava così tanto gli abitanti della sua tribù che trovò in sé stesso tutta la forza che aveva in corpo. 

Doveva agire, e subito! Non poteva sfidare i nemici armati con solo la forza del suo corpo, allora si guardò attorno e rapidamente raccolse da terra due bastoni. 

Uscì allora dalla capanna facendo un salto mortale, terrorizzando i nemici, i quali rimasero impietriti e increduli, e gridò: “Scappate ragazzi! Che io sono Maculelê!”. 

Il suo urlo da guerriero era più spaventoso che mai. 

Anche lui in fondo aveva un animo combattivo, aveva solo bisogno di trovare la giusta motivazione. 

I nemici tentarono di scappare a gambe levate ma non ci riuscirono. 

Nel frattempo, dopo aver capito di essere caduti in un tranello, Il Grande Capo e tutti gli altri guerrieri del villaggio erano tornati indietro. 

In pochissimo tempo tutti i cattivi vennero catturati e rispediti indietro dopo averli costretti ad firmare un trattato di pace. 

Tutti gli abitanti del villaggio uscirono esultando con dei bastoni in mano in segno di riconoscimento al loro eroe, gridando “ Maculelê! Maculelê! Maculelê!…”. 

Il Capo Villaggio non poté fare a meno di riconoscergli il merito di aver salvato tutti quanti con il suo grande coraggio. 

“ Maculelê, avresti potuto morire, con soli due bastoni e la tua inesperienza non saresti riuscito a difendere la tribù, tuttavia ci hai provato lo stesso e non hai esitato. Sarai per sempre ricordato come l’eroe del villaggio! Mi sono sbagliato sul tuo conto…” 

“…ecco… prendi questo” continuò mentre porgeva a Maculelê il suo cappello di piume “lo cedo a te, in segno della mia gratitudine”. 

Suo padre corse ad abbracciarlo. Non poteva essere più orgoglioso e fiero di suo figlio, che alla fine si era dimostrato un grande uomo, senza per forza dover essere un cacciatore o un guerriero come gli altri. 

Quella sera ci fu una grande festa: tutti ballarono attorno ad un grande fuoco; donne, uomini e bambini si muovevano a ritmo di tamburi con due bastoni in mano in onore di Maculelê, l’eroe indiscusso della tribù. 

La sua storia divenne leggenda e le sue gesta sono raccontate in una danza, che dal quel giorno in poi, fece il giro del mondo.

  • Personaggio leggendario

Scritto da: Gnecchi Elisa

Certo Dia Na Cabana Um Guerreiro (maculelê)
Spettacolo di Maculelê all’8° incontro mondiale del gruppo Capoeira Sul da Bahia in Brasile